Cosmonauti fai-da-te *

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Come quando il cerchio si mette in movimento,

ruota che gira,

mulino di Amleto,

azione in atto,

velocità repressa che esplode,

diviene ellisse,

il tempo diviene Storia,

poi ancora una volta il bardo comincia a raccontare,

la storia rinasce,

perfetta,

come la ragazza

che nacque da un uovo di Cigno,

eccola,

figura di moto,

……………………

piedi sporchi

sulla terra gelida,

solchi pesanti

per popoli passeggeri.

 

Quali sono le tracce che lascio

lungo il cammino,

quale geometria arcana

segue il mio Io,

mentre mi abbandono?

Svello i cerchi di Saturno,

movimenti impietriti,

miei fratelli,

li ritrovo sempre quando vedo il mio respiro,

condensa di pensieri

per attimi caduchi.

 

Lo Spazio si dipana come libro di preghiere,

insufflato di divino,

ma le voci non si sentono.

Corpo vagante,

                                                                 forse altro mi sento,

ma so che un giorrno,

in cui spazio e tempo non vi saranno più,

vago ricordo di gelato alla menta,

sorriderò ancora

e tu,

traiettoria sghemba

di inquadrature in bianco e nero

mi cadrai,

mi ricadrai fra le braccia

da Cristo,

linee curve, amache ideali

(due forze le sospendono dai lati)

lanciate nel pulviscolo e nel vento,

per prenderti,

raccoglierti,

proteggerti,

mentre l’universo si regge da se.

 

 

*Dedicata ad Erika, come un’allegoria.

 

-(Si ringrazia la redazione di “Fischi di Carta” per la pubblicazione nel numero di Dicembre 2013)-

L’idiota di famiglia

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Smoccolatura di cera

vivace come un gatto che osserva la notte,

incapace di ridere di se

e per questo salvo

dal consueto rimescolio del quotidiano.

 

Bisogna essere soliti

per essere sereni,

ma io,

macchia sulla tovaglia

a scacchi rossi e blu,

ideale di un passato dimentico,

incarnazione di sfaceli, decadenza e modernità che si disvela

nella sua modestia,

danza dei sette veli,

idolo

per i soli,

non sono mai stato bravo

ad imparare,

rinnego i miei eroi

e commetto sempre gli stessi errori.

 

Nessuna rivoluzione va fatta

se prima non si conosce il linguaggio dei fiori

e i gesti dei bambini,

sapienza di grano

e ricciolo di vaniglia

che cade dal piatto.

 

L’uomo più vanitoso sulla terra

è quello che ha più paura della sua ombra,

passare le ore

come se si fosse

al di là

dello specchio,

ma gridare,

soffocati,

dietro la lamina di ghiaccio.

 

Per tua grazia,

dono inatteso e non meritato,

mi elevo su vette

azzurrate,

arabesco svolazzante tu sei

che tutte le volte mi impegno,

senza riuscirci,

a tradurre nella mia lingua

troppo imperfetta,

per essere la tua.

 

Sono le tue dita a consegnarmi alla storia,

null’altro,

solo le tue parole

danno il senso profondo

del continuo ritorno

della luce

dopo la tenebra.

 

La sera inteneriva ancora

quando si compì il desiderio

e nonostante questo

il futuro non è ancora stato scritto.

Sura del principiare

 

 

Voci rombanti fra androni

e tavoli bianco-sporchi,

esseri palpabili,

digitali sulfurei,

giovani,

come insetti striscianti,

gonfi di vita, ebbri

sull’orlo dell’uguaglianza.

 

Prego in modo che

nessuno mi senta,

tanto meno

dio.

Mi accorgo di sgranare i pensieri

come pezzi di mollica

che getto poi in un laghetto,

quasi ghiacciati,

quasi vero,

di un quartiere popolare.

 

Ingabbiato da cementi,

mi dolgono i piedi

quando cammino

per vie asfissianti

di una città che io ho progettato,

luogo ideale,

travertino del mio incubo.

 

Le ugole risuonano,

le piante mi osservano,

salgo lentamente,

prego.

Ad aspettarmi ci sei tu,

stella del mattino, stella della sera,

Venere e Lucifero,

serafica Sfinge d’Edipo,

conosci tutto e dimentichi il presente,

esisto

nell’attimo in cui

le tue mani

(dagherrotipi fumé d’elitre trascorse?)

si posano su me.

 

Prego sempre,

solo per giungerti. 

         Spasmo d’attimo infinto.

 

 

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Il paradosso della freccia

Battito corale di figure ritagliate nella memoria
l’andare lento ma senza l’aiuto dell’inerzia,
il percorrere fili di ragno invisibili
ai sensi comuni,
gocce
gocce
ancora gocce sulle labbra,
così piccole,
anagramma di un pensiero velato?
Si schiudono
come bocciolo di fiore
a primavera,
energia in potenza,
elisir della debolezza
e fantastica geometria dell’assenza.

Sopra di me
cielo grigio e inespressivo,
lastra di ghisa di azoto di ossigeno
di scie chimiche
di lontani aerei,
liberi e prigionieri,
ma comunque dominatore di ciò che sta sulle nostre teste.

Come riempire i quaderni,
per essere un passo avanti a te,
tu che corri,
perduta e terribile,
così bella da sembrare vera,
nel lucido rossore
del giorno che muore.

L’amore è perduto,
come un battito di ali di farfalla,
colleziono sconfitte
e passi falsi,
con la perspicacia dell’amante,
poco tempo per amare,
ancora meno per vivere,
ma non smetto di camminare,
lento,
sommare i piedi per creare il moto,
come scivola
la piccola lacrima d’ambra
sull’albero
fisso
nel bosco
buio.

Scarico pensieri e parole,
e paure infantili,
sulla freccia che scaglio verso te,
per non abbandonarti,
per non prenderti mai,
per ferirti a vita.

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Consonanti orme

Nell’ora senza vento

l’acqua riflette il cielo.

Appallottolo fogli bianchi,

lucore pret-a-porter,

su cui avrei voluto scrivere

la mia vita,

migliorare il finale,

tatuare quello che sento

per te,

e invece

mi ritrovo

ad accartocciare

la mia stessa anima.

Nell’ora senza vento

l’acqua ripete il cielo.

Io sono un rabdomante,

stringo un rametto

biforcuto

trovato sul greto del fiume,

bianco di calce,

come biacca sul muro.

Ricerco e recupero

quello che già ho dimenticato varie volte.

Amo perdermi

e ritrovarmi,

come segno alchemico,

serpe che morde serpe,

sentimento che non finisce

dopo una notte insonne.

Nell’ora senza vento

l’acqua ripete il cielo.

Batto le mani

e il silenzio si arricchisce

di un punto,

poi ne se va il rumore

e ascolto, solo, il battito del mio cuore,

franto,

ritmico piovere,

come i fine settimana a targhe alterne.

Nell’ora senza vento

l’acqua ripete il cielo.

Sottovento fendo l’orizzonte,

ti trovo sempre,

mi piace come suonano

i nostri passi,

percorsi assieme.

Coriandoli piovono dal cielo

Bevo molto vino ed esco di rado.

Raccogli i pezzetti del mio corpo

mi hai reciso i tendini

con un tuo bacio

senza neppure una carezza.

 

Solo coriandoli piovono dal cielo,

solo coriandoli piovono dal cielo,

solo coriandoli piovono,

e io mi sento come in mezzo al deserto

sole puntato come pistola alla tempia.

 

Risolvo i rebus della settimana enigmistica

ma non mi sono  abituato mai alle coincidenze,

ai contrattempi di un lavandino che perde.

Odio i panni ben stesi e le tovaglie piegate,

tanto poi finisco come un animale selvatico,

ricacciato nel bosco,

nudo nel mio letto.

 

Solo coriandoli piovono dal cielo,

solo coriandoli piovono dal cielo,

solo coriandoli piovono,

e io mi sento come in mezzo al deserto

sole puntato come pistola alla tempia.

 

 

Mi batte la testa al ritmo del tip-tap

sono un equilibrista senza corda

e il bello che nessuno lo sa.

Agitato dalla tramontana di amare lei

risospinto come la marea rimango

e faccio compagnia ad un secchiello di plastica,

in una spiaggia sporca.

Bevo ancora più vino ma esco qualche volta,

mi diverto anche quando piove.

 

Solo coriandoli piovono dal cielo,

solo coriandoli piovono dal cielo,

solo coriandoli piovono,

e bevo questa pioggia di carta,

come tu hai amato le mie parole

che non ho mai scritto

ma con cui abbiamo fatto sempre l’amore.

 

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Sopra “La coppia di innamorati e la morte (La passeggiata)” di Albrecht Dürer

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Forse è che siamo ripidi

e non vogliamo squadrarci,

primordiali,

quando il vespro si fa

e gli abbracci servono

a rinfocolare la pelle,

abbrustolita

dai nostri pianti.

 

Segui a ritroso

i folli voli di starna

dei tuoi capelli,

onde seriche,

composti di oro-castagna di Bolivia,

filigrana odorosa,

tappeto privato,

arpa che amo

pizzicare

 con i ditirambi

del mio cuore.

 

Attraverso il tuo velo

il Saggio declama i numeri e le proposizioni,

arcane,

sillabando il tempo che scorre,

smozzicato,

inesorabile,

come la fine che arriva,

che s’appiatta

al limitare dell’arcobaleno.

 

Scambiamoci ancora una volta

le nostre preghiere

e i nostri respiri,

più sacri,

nel buio che siamo e che

portiamo dentro.

 

Mi sento un’acquaforte,

quando il gallo annuncia

l’inizio,

ma tutto è già trascorso.

 

Der doet kompt en brent den aevent.

« Non è sempre carnevale ;

la Morte viene e porta la sera».

 

Le printemps de la Renaissance (da una mostra del Louvre)

Figure che nella mota

s’alzano e poi si riabbassano,

tonfi

passi di liquida oscurità.

Da una caverna

osservo le monde comme il va,

gli inganni e le piccole,

impercettibili,

ali di farfalla

che planano

sulle teste di giovani ragazze,

sedute per terra,

in piazza,

il giorno della fiera

odorosa di vita.

 

Essere tutto questo

significa commuoversi

ad ogni foglia che cade

dal suo ramo,

nido divino,

mostrando il minimo interesse

per le cose terrene;

essere trascendente

come lombrico

che traccia solchi fra le zolle

di terra,

bagnata dai rimpianti

di un vecchio.

I passi si trascinano

stanchi

sulle pelli di asfalto

di persone che s’affannano,

si scrutano

e scorticano i gemelli delle camice,

senza chiedersi un perché.

 

Un’altra luna è possibile,

forse auspicabile,

ma i tuoi occhi

sono sempre là,

fissi,

come le cose che

non m’abbandonano.

 

Io possiedo la conoscenza

di saperti amare,

come meriti,

come devi,

come fai tu.

Grandi balzi

per piccoli cuori,

anoressici.

 

 

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