Ruina per i Plantageneti

Incarnati pallidi,
visi tiepidi,
pioppi come giunchi di gambe
sereni di lagune,
fresca verzura,
corrompe un poco il passo,
scazonte l’andare per mano,
prima io, poi tu.

Da zero a cento
intermittenze chilometriche
del cuore,
all’ora che muore la notte.

Il futuro é adesso
e il passato un grammofono
che gracchia
del tempo rubato

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Tu sogni
ed io son desto

Obice cardiaco

L’Amore,
tu,
se vuoi,
ma capovolta,
come un non-ti-scordar-di-me staccato dal ghembo,
che cade a testa in giù
sulle nostre orme
fango contro pensieri.

Capolinea del viaggio di un treno ferroso,
gracchiante procedere di informazioni,
mute linee si scontrano al di qua del tuo profilo,

non presenta confini netti,
ma è solo spazio,
nebulosa lattiginosa appena al di sotto del capo, malvasia di onde i capelli,
piccoli chicchi di stelle,
forse chicchirichì,
pigolanti sentinelle dei pensieri tuoi,
battito d’ali del pettirosso alacre
che buca l’inverno, sopito
dei miei morti amori, metamorfosi di vertigini
sono questi palpiti del cuore.

Tu rimani immota nei flutti del tempo,
costantemente luce verde in fondo al mare,
che unisce i mercanti dalle mani callose
e divide i cuori dei giovani che hanno paura delle onde,
per poi abbracciarli
in teneri,
ascosi,
golfi mistici di segreta ambra

Estate indiana

 

Egon_Schiele_-_Der_Maler_Max_Oppenheimer_-_1910

Un mattone ti salva la vita

quando dal confine

cala la sera,

calco barbariico di pioggia che bagna senza lasciar traccia,

cala la sera,

stanca e bianca

come velo di sposa,

che si srotola sui nostri

mojito ghiacciati, blues alla menta

sui club privè che

stanno per aprire il loro

ventre infecondo.

 

Squarciare l’aria con l’asta

del microfono

un urlo che spezza il lucore

della notte.

Già è tempo

della notte.

Già è tempo

di amare,

per la morte

c’è il mattino

 

Rotazionid’iridi

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Iridi vividi bu,

 

ferro e rame misurano

 

in stadi e singhiozzi

ciò che ci separa,

tra te, me e lei,

l’ingorda assenza.

 

Talvolta sentirsi strappato,

vestimento d’Arlecchino

lacerato

dagli artigli del Tempo,

culicchia blu Urano

delle nostre paure.

Tamburellanti dita che,

in modo inaspettato,

cuciono assieme accordi di pensieri,

posati come noccioli di

ciliegie

sputati sul giardino, florido,

della mia giovinezza.

 

Tu non sei un fiore al

limitare del bosco,

ma il fungo che penetra

la terra odorosa,

dai il sapore al mio cammino

non ti colgo, ti nutro.

 

Appari ora,

pulsando pensieri rapidi,

come il fantasma meridiano,

apparizione di occhi e gambe,

pioppi digitali,

scalate ideali,

contenendo in te il libro mastro,

miniato,

del mio ruotare.

 

Canto per te la mia canzone,

a forza d’essere vento.

Carne di seta

Il nodo scorsoio
è il nodo della cravatta
piccola sciarpa di tessuto,
scarlatta
come il sangue,
                                       croati alla riscossa dei secoli
cavalieri di un tempo mai
davvero ritrovato.

L’ansia di dover crescere
senza poter maturare.

Stringe la mia cravatta

fischiano i pensieri

l’autobus esplode di umanità, bile e sogni infranti.

Ed io mi sento 
un attardato centauro
colto
nell’attimo in cui sparisce 
l’ultimo giardino del mondo

Immagine

Ut pictura poesis. Tra i Pitti, tra me e i Giorni della Merla.

Immagine(La mia spada è un lapis la mia casa è il mondo il mio respiro è il vento)

 

 

Prendo un lapis,

poso la mia idea

sul foglio,

bianco,

neve prima d’inverno,

bon hiver.

 

Blu il corpo del mostro che disegno,

come un serpente

incastonato in una tartaruga,

rossi

i denti inevitabili.

 

Voglio essere straziato

dalla folle creatura della mia mente,

come se l’anima

si amalgamasse

nell’ombra.

 

Magari fossi in grado

di tracciare una linea rossa

sulla mia vita

e una blu,

baritona,

sui miei errori.

 

Ma il foglio rimane sporco

ed io

non so più

come cancellarlo.

 

Una piccola anima

fa un rumore immenso

quando passa la notte.

Intra montes

Immagine

 

Un serpente dai riflessi di metallo,

squame a modico pagamento,

Zagreus è con me

Zagreus è dentro me,

lungo la pelle

d’Europa

scorre,

goccia che scava la pietra,

non cresce muschio

su quel sasso.

 

Pigmalione creò dalla gelida materia

inerme

la sua Bellezza,

lei invece

mi ha trovato,

io ho trovato

lei.

 

Altare di Mani carnali,

cerchez la femme?

Ma no, cerchez l’Ideal!

 

Tuo primo adepto

e primo dei peccatori,

scaraventato in un Cocito

così dolce

da non rimpiangere il baratro

né la caduta,

come orafo che sbalza una pietra preziosa.

 

Misura della lontananza,

neve che copre i miei occhi,

non sono mai stanchi

di seguire i tuoi.

Coccinelle che mi guidano

per le vie dei canti

fra le azzurrità di un cielo.

 

Certame di stelle.

 

Potesse quella rupe

che ora scompare rapida,

farsi getto d’acqua,

di fiume,

di lago,

di mare,

cosicché la mia mano

incarni

la velocità

dei miei pensieri

il levare

delle mie preghiere,

canto che si espande

e prorompe

al di là

e al di qua

delle orme lasciate

dai passeur.

 

Se ti seguo è perché

non esiste lo zenit

senza il nadir.

 

                                                                                                                                     (anche se l’orma

della mia presenza

è quasi cancellata,

tormenta-ta di spiriti)

 

Fra i monti

non raggela il mio amore,

divampa.

                          

Segno d’interpunzione

 

 

 

Servirsi degli attimi

solo un episodio nella propria vita,

per ristabilire il senso dell’esistenza.

Immagino mondi possibili

e sequenze intermittenti

di casi, numeri e possibilità

e tutto quanto mi sembra futile,

una prosa strascicata,

intervallo durante il film,

riposo incongruo del cacciatore,

se non ci sono le nostre linee

che si incontrano,

si riconoscono

e si amano,

nel tripudio del piano orizzontale.

 

Squadernare il tavolo,

lo potrei fare,

coniare una nuova ellittica,

avvicinare le nostre distanze,

colmare le assenze e i vuoti delle nostre

due vite comuni e non comuni,

ritirarti nell’eremo della mia protezione,

ma non è così che le cose vanno,

non oggi,

non ora.

 

Adesso è il tempo di bere la coppa della vita,

rapidi,

sono le rotaie a separarci o a unirci,

me lo chiedo quando vengo da te e ne diparto,

porto di mare che è casa mia,

l’unica che può essere tale,

anche se non è ancora,

ma sarà,

prima che si faccia la sera.

 

E vada come vada,

partenze o arrivi,

ne è valsa la pena

consumare le suole delle scarpe,

 

Senza avere un secondo di tempo in più,

ci si bagna appena le labbra,

ma non si scorda il sorso d’ambrosia.

 

Ritrova la farfalla,

pigmenti e battiti,

fra la siepe di biancospino.

 

Stare accanto a te

è come vivere l’età dell’oro,

senza che vi sia una fine apparente,

ma sempre latente,

quando la tua bocca

si stacca dalla mia.

Cristallizzarti nel cielo delle stelle fisse,

rotante

creante una musica divina,

ma tu,

verde filo di abbagliante verità,

non ne hai bisogno,

sei già da tempo

più perfetta armonia

nel caos dei pensieri tuoi,

della volta  lassù,

sopra la mia testa. 

 

 

 

Immagine

Atopia dell’Amore

 

  

Sorgesse dalla spuma del mare

o dalle viscere della città

o dalla piazza di mattoni rossi,

turrita,

un ponte

poco oltre

bilicato in punta

dal grano biondo di Maggio,

non importa,

non farci caso,

pomeriggi troppo lunghi

troppo azzurri,

quando i pensieri e le mosche girano

ellittiche,

roteano nell’aria

che diventa fredda,

e poi cadono.

 

Vivere

è dormire con gli occhi aperti,

amare

è essere per qualcuno.

 

 

 

Immagine

 

I guardiani dell’osso

Immagine

 

 

Lavo le mi ossa

con la cura che si ha

nel commettere un delitto,

nel segreto di una vasca di marmo,

insufflati dal consiglio divino,

macchiati dal sangue

di una stirpe

un gomitolo di concause

colto come viola

 nel  corso della macina

che schiaccia e sgranella le generazioni

come foglie

passano ineluttabili

come alla burrasca

segue la quiete

come scorpione

che punge sempre

la rana traghettatrice,

è il filo tessuto, baby .

 

Non ho pace se non dopo la morte,

bevo acqua da solo,

i miei passi sono falsi,

fallaci,

interpreto la parte  del bimbo

che soffia fuoco dalla bocca

balla sciancato al bordo del marciapiede

educa una scimmia, pedagogo dell’inferiorità

per un tozzo di pane

tra gli schermi al led

sereni come oracoli che tacciono.

 

Un’arida siccità mi colpisce

sin da quando

feci la mia prima azione,

un pianto disperato,

senza speranza,

bianco come la morte,

aspettavo un argine

al mio dolore autobiografico.

 

Tu mi sei diga,

che raccogli ciò che di bene reco in me,

lo custodisci,

serena guardiana

dei miei velati pensieri.

 

Raccogli i passi montani,

pura,

devastante,

dinamite punteggiata di pois neri,

coccinella ideale.

 

Io sono un piccolo fiume montano,

che lava, passando

ossa bianche sul suo letto,

le mie ossa friabili

al tatto

e leggere

al respiro

e deboli

alla mente…..

 

Tu proteggimi,

racchiudimi,

                                                                         obliami in te.